Il 2 agosto 2022 la “Speaker” della Camera dei Rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti, la democratica Nancy Pelosi, atterrando a Taipei, ha di fatto instaurato una nuova fase nei rapporti tra la Repubblica Popolare Cinese e il suo Paese.
Una fase che non sarà certo caratterizzata dalla positività dei rapporti ( questa, a dire il vero, già persa dal 2017 in poi con l’avvento della Presidenza “protezionista” di Donald J. Trump), ma che nemmeno potrà essere caratterizzata da una evoluzione apocalittica come paventata dall’establishment di Pechino, in particolar modo dal leader Xi Jinping, che della ipotesi di “rientro” totale dell’isola di Formosa nel sistema statuale della Cina Continentale, ha fatto il suo principale “cavallo di battaglia” di questi ultimi 4 anni, anche in vista della sua nuova elezione a Segretario Generale del PCC, per un altro mandato decennale.
Le manovre militari dell’apparato militare cinese intorno all’isola che un tempo fu l’esilio del regime nazionalista sconfitto da Mao nel 1949 alla fine della lunga guerra civile ma che ora è di fatto è l’ultimo baluardo di un modello cinese democratico, possono sicuramente avere un alto tasso di pericolosità per il rischio di incidenti, ma non possono essere il preludio di una guerra convenzionale tra quelle che attualmente sono le due superpotenze globali.
Troppo ancora il divario tra la capacità offensiva degli Usa rispetto alla Cina, sia in campo convenzionale. In ambito nucleare, nonostante alcuni progressi nel campo della missilistica ipersonica e più in generale nel campo del controllo dello Spazio extra-atmosferico, la superiorità di Washington rispetto a Pechino è evidente.
La Presidente Pelosi ha di fatto voluto andare a vedere il “Bluff” pokeristico di questa leadership cinese in cui il ritorno ad un approccio “maoista” pre-rivoluzione culturale si confonde con un pericoloso istinto ad eccitare spiriti nazionalistici con modalità non troppo dissimili a quelle che abbiamo visto e stiamo ancora vedendo nella nostra Europa Orientale.
A questo punto le relazioni, paradossalmente potrebbero anche migliorare. Ovviamente, dopo la fine di questo 2022, che vede Xi Jinping in attesa del suo mandato “ de facto” a vita e dopo l’esito delle elezioni di medio termine del Congresso Usa, in cui bisognerà comprendere quanto le spinte “trumpiane” si ripercuoteranno nel probabile dominio del Partito Repubblicano all’interno di Capitol Hill.
Il futuro dell’Occidente non si svolge solo in Eurasia, nell’evolversi del conflitto tra Russia e Ucraina, ma avrà la sua evoluzione principale su come Stati Uniti, ma anche Giappone, Australia, Regno Unito e Unione Europea sapranno difendere spazi di democrazia residua nella sfera culturale e linguistica di derivazione cinese.
Ciò vale soprattutto per Taiwan, ma non bisogna trascurare le Filippine, Indonesia e Malesia, che rischiano di essere “inghiottiti” dalla complessità dei rapporti di dipendenza economica con la Cina, a scapito della loro sovranità e della loro capacità di essere ancora un modello democratico e non autoritario.
Angelo Pugliese